Guardiamo all’icona. La scena della Natività è rappresentata su una tavola con gli angoli smussati, con i lati non squadrati lanciata verso l’alto. Vuole imprimere un movimento, una dinamica al nostro sguardo e attraverso il nostro sguardo alla nostra vita. La vita di Gesù che la Scrittura ci presenta, la vita di cui parla il Vangelo non è uno schema fisso, inquadrabile in quattro lati uguali, non è contenibile in una serie di idee e di giudizi. E’ molto di più..E’ un viaggio che i nostri occhi sono spinti a compiere partendo dal basso verso l’alto. e incontro colori “meticciati” (è una parola molto cara a papa Francesco). . E’ dipinta su tavola di legno ingessata con tempera d’uovo e colori naturali. Non vedete rossi sgargianti o blu profondi ma colori mescolati tra di loro com’è nella vita, com’è nella natura. Vi siete mai chiesti perché in natura sono bellissimi certi abbinamenti di colore che diventano fastidiosi se cerchiamo di indossarli? Non è bellissima la viola vicina alle sue foglie verdi? Eppure se mettessimo una gonna viola e un maglione verde forse riuscireste a stendo a guardarmi perché in natura i colori non sono puri. Al loro interno hanno sempre altri pigmenti. E questo mix di colori il nostro occhio lo percepisce come armonia perché il nostro occhio è fatto così: trova riposo in questa mescolanza. E’ la mescolanza a cui ci invita l’episodio della torre di Babele. Parlare lingue diverse non è la maledizione di Dio ma la sua benedizione. Dio vuole che noi parliamo lingue diverse e non un’unica lingua come sta accadendo. E allora facciamo questo viaggio partendo dall’alto verso il basso e poi prenderci il tempo, in modo personale, chi lo desidera di fare il viaggio contrario, dal basso verso l’alto.
Possiamo leggere l’icona a fasce:
- - la sfera celeste, la stella e la montagna
- - Gesù, Maria, il bue e l’asino
- - Giuseppe e i doni
1. LA NUBE E LA STELLA
2. GROTTA, GESU’, MARIA
L’Icona del Natale ci porta, tutti noi che siamo qui a guardarla, nel luogo preciso che è la montagna. E’ quel luogo simbolico nella Bibbia che dice il luogo dove Dio ci dà un appuntamento, dove Dio si fa incontrare, vedere, conoscere. Nel cuore di questa montagna c’è un’apertura, uno squarcio, una fenditura, una caverna oscura che rimanda al mistero del male che attraversa le nostre vite. Sete di Dio ed ombra….così siamo noi. Questa caverna vuole ricordare le fauci del drago di cui parla il libro dell’Apocalisse, un libro che parla di un drago pronto a divorare il bambino che nasce….ma noi sappiamo, dalla vita di Gesù, che questo drago non lo divora! La morte, qui rappresentata dalla sindone di cui è rivestito il Bambino Gesù e dalla culla a forma di tomba, la morte non vince, il male non vince. Dentro a questo squarcio oscuro vediamo il Bambino offerto da Maria e ci viene da sperare. Se un bambino è proprio nel cuore della ferita allora possiamo sperare. Se una mamma ha il coraggio di mettere il proprio figlio nel cuore della ferita, allora possiamo sperare perché il male non ha l’ultima parola.
C’è una bellissima chiesa a Roma, S. Clemente, che porta nell’abside un mosaico di una bellezza straordinaria. Tutta la cupola dell’abside è dorata ma c’è un buco scuro a forma di croce e sul quella fenditura il corpo di Gesù in croce. E’ lo stesso significato. Gesù è quell’amante del Cantico dei Cantici che fa di tutto di dire il suo amore all’amata, fino a raggiungere e ad entrare nelle fenditure della roccia dove l’amata si è nascosta per paura. Gesù, per amore, ci raggiunge dove siamo, non c’è oscurità che non possa essere illuminata dalla sua presenza. E questa è la nostra speranza.
L’annuncio del Natale qui è già pasquale: qui ci
viene raccontata una nascita che non muore più. Noi tutti sappiamo che nel
nascere, moriamo: abbiamo un giorno, un mese, un anno in meno da vivere. Ma qui
ci viene offerta un’altra prospettiva: un Bambino che nasce per non morire più!
E
questa è la nostra speranza!
Qui Gesù è colto mentre viene sollevato da S. Maria. L’icona mette al centro la cosa più importante della scena. Al centro si trova Gesù offerto dalla Madre a sottolineare che Gesù è un dono dato all’umanità. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio perché chi crede abbia la vita dell’Eterno”. Il Verbo divino si fa storia, si fa quotidiano. Dio entra nel limite del tempo e dello spazio. E’ nato in quell’anno, in quella cultura, in quella famiglia e non in un’altra. Per noi che passiamo tutta la vita a sognare come sarebbe stata la nostra vita in un altro anno, in un’altra cultura, in un’altra famiglia….L’icona del Natale, invece, offrendoci Gesù ci offre la possibilità di riconciliarci con la nostra storia perché Dio stesso ha accolto, tra le infinite possibilità, una sola e dentro ci è rimasto fino alla fine.
L’icona del Natale andrebbe guardata con gli occhi chiusi pensando che
Dio, che domina i secoli eterni, senza inizio, senza fine mi ama così tanto da rinunciare ai suoi privilegi e scegliere una
storia precisa per farsi conoscere,
farsi conoscere da me….. Anche noi non abbiamo altro modo per farci conoscere
che la nostra storia… E questa storia si
fa dono! questa è la nostra speranza!
Poi c’è Maria. Per noi abituati al presepe, introdotto da S. Francesco di Assisi, sembra strano che Maria non guardi a Gesù ma verso l’infinito, con uno sguardo pensoso, meditativo. Il Vangelo ci racconta di una donna che cerca di meditare nel suo cuore, cerca di mettere insieme i pezzi di una storia. Nel testo greco si parla di “simboleggiare con il cuore”. Questo lavoro interiore a cui Maria ci invita con il suo semplice guardare oltre è forse il lavoro più importante della vita, il lavoro più importante da insegnare come diceva Etty Hillesum, un’intellettuale ebrea uccisa nella camera a gas. In una lettere scritta nel campo di concentramento disse: ”Tutto avviene secondo un ritmo più profondo che bisognerebbe insegnare ad ascoltare. E’ la cosa più importante che si può imparare in questa vita”. Maria è colta qui mentre cerca di ascoltare questo ritmo profondo che abita la vita, dove nell’interiorità si riesce a cogliere quel filo rosso che collega la vita. E questo vuole anche dire libertà. Saper prendere la sana distanza dal figlio, dalla moglie, dal marito, dall’amico, dalla persona amata non è meno amore. Ma amore sano, amore vero quello che vuole il bene dell’altro, con una libertà affettiva di cui Maria è testimone: l’altro che amo non serve a me ma io mi faccio servitore della sua libertà e sarò felice delle persone che incontrerà, anche senza di me; delle esperienze che farà anche senza di me perché sono certa che il posto che io occupo nel suo cuore non lo occuperà nessuno. E solo il lavoro interiore, il lavoro a cui ci conduce lo Spirito Santo, può regalarci questa libertà di cui è stata capace Maria. E questa è la nostra speranza!
Dentro la grotta vediamo il bue e l’asino. Ce ne parla un Vangelo apocrifo: “Il terzo giorno dopo la nascita del Signore Gesù Cristo, Maria uscì dalla grotta e, entrando nella stalla, pose il Bambino nella mangiatoia. Il bue e l’asino lo adorarono”. Questi due animali stanno a simboleggiare l’umanità non credente che riconosce Gesù. I padri della Chiesa, questi teologici cristiani vicini al tempo in cui Gesù ha vissuto, vicini alle testimonianze degli apostoli e delle prime comunità cristiane, dicono che il bue e l’asino raffigurano la parola del profeta Isaia quando dice: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone; Israele invece non comprende, il mio popolo non ha senno, dice il Signore”. Cioè questi due animali, che noi nel presepio immaginiamo lì per tenere caldo a Gesù, in realtà ci sono da ammonimento. E questo ammonimento che riguarda la nostra capacità di riconoscere i segni con cui si fa presente nella nostra storia riecheggia le parole che Gesù rivolge ad un militare pagano: “In verità vi assicuro che neppure in Israele ho trovato una fede così grande.” Ci sono semi di verità, semi di fede, semi di speranza e di amore anche fuori dai nostri circuiti religiosi. E questa è una grande speranza!
3. GIUSEPPE E I DONI
Guardiamo a Giuseppe. Ci sembrerà strano non trovarlo nella grotta, con le braccia conserte, accanto alla Vergine e al Bambino, come accade nei nostri presepi. La chiesa antica ha voluto mettere un Giuseppe in atteggiamento pensoso e interrogante. Rappresenta il nostro dramma, il dramma umano davanti al mistero di Dio. Sta vivendo le sue notti, i suoi momenti di dubbio, di difficoltà, di crisi rappresentati dal colore giallo. C’è una prima notte quando l’angelo gli annuncia di non temere quello che sta succedendo in Maria ma di accettarlo senza contribuirvi in nessun altro modo. Poi viene la seconda notte quando su Betlemme, la potenza del re Erode deciderà una strage di bambino con l’intento di uccidere Gesù. C’è una notte di decisioni, di preparativi, di partenza. E infine un’altra notte, quando per la terza volta gli appare l’angelo del Signore. E’ in Egitto, migrante da diversi anni, sradicato dalla sua città, dai suoi parenti
e amici quando finalmente può fare ritorno assieme a Maria e Gesù. Di Giuseppe nel Vangelo ci resta il segno di quel lavoro interiore che lo ha reso accogliente. Solitamente nelle icone antiche del Natale davanti a Giuseppe c’è uno strano personaggio. Rappresenta la natura umana, le inclinazioni naturali che ci portiamo dentro: le paure, il bisogno di sicurezza, la diffidenza, l’egoismo, l’idolatria…..E questo personaggio strano vuole indurre Giuseppe a non obbedire alle Parole dell’angelo. Ma per nostra fortuna Giuseppe è un uomo capace di lottare contro queste forze che ci abitano e lavorano in noi per impedirci di realizzare il sogno di Dio che è una fraternità universale. E questa è una grande speranza!
Ora spostiamo il nostro sguardo in quel particolare che si trova sul lato sinistro in basso, davanti a S. Giuseppe. Vediamo rappresentati i doni portati dai magi: oro (simbolo della regalità), incenso (simbolo della divinità), mirra (simbolo della passione). E riascoltiamo le parole parole di Gesù: “Vi erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo restò chiuso per tre anni e sei mesi, sì che vi fu una grande carestia per tutta la Palestina, eppure a Elia non fu inviato a nessuna di loro salvo ad una povera vedova di Sarepta, nel territorio di Sidone; vi erano pure molti lebbrosi in Israele al tempo di Eliseo profeta, ma nessuno di loro fu guarito, eccetto Naaman, il siro”. Dio è cattivo e noi siamo più buoni di Lui quando preferiamo i nostri figli agli estranei? Perché Dio si fa presente ai lontani e non ai vicini? Per insegnarci qualcosa che noi non faremmo mai. Noi mettiamo confini: la nostra famiglia, il nostro Comune, la nostra Nazione e questa parola ci aiuta ad allargare i nostri orizzonti. Non ci vuol senz’altro dire di trascurare quello che a noi viene già spontaneamente: aiutare, farsi prossimo di quanti ci stanno a cuore, di quanti conosciamo. Ma non dimenticare la nostra famiglia, la nostra Nazione sono quei luoghi dove ci sentiamo amati e sicuri per diventare accoglienti sempre più e sempre meglio. Questo è di Dio…accompagnarci a fare quel passo che noi facciamo fatica a fare. E questa è la nostra speranza!
Sotto ai doni troviamo un alberello, delle spighe di grano, un grappolo d’uva, dell’erba….Un antichissimo inno liturgico dell’VIII secolo canta queste bellissime parole: “Che cosa possiamo offrirti o Cristo, poiché ti sei mostrato sulla terra per noi come uomo? Ognuna infatti delle tue creature ti porta la sua testimonianza di gratitudine: gli angeli ti offrono il canto, i cieli la stella, i Magi i loro doni, i pastori la loro meraviglia, la terra una grotta, il deserto una mangiatoria.” Nell’VIII secolo la chiesa pregava e cantava quello che papa Francesco ci sta facendo capire perché lo abbiamo dimenticato, accecati da altre logiche. Tutto il creato è connesso all’evento di Cristo. Questa icona ci presenta il Creato come testimone di gratitudine e non come un oggetto da usurpare. Come cantiamo nella preghiera del mattino di Natale “I cieli e la terra sono pieni della gloria di Dio” (Te Deum, Ufficio delle letture di Natale). Tutto quello che i nostri occhi vedono ci parla della gloria di Dio, ci parla dell’amore di Dio per noi. Il creato ci invita a rispondere a chi è in principio. IO vedo un albero, del grano, un fiore ma tutto ciò racconta qualcosa del donatore.
E qui, ho voluto mettere un richiamo all’Eucarestia
nella quale offriamo al Signore i nostri doni possibili: quelle spighe e
quell’uva vengono trasformati dal nostro lavoro e presentati a Dio perchè
diventino quel cibo e quella bevanda che ci nutrono in eterno. E
questa è una grande speranza!
CONCLUSIONE
Tante
parole per dire la cosa più importante che sta al cuore della nostra speranza.
Come dice don Dario Vivian che solitamente vi accompagnava nella meditazione
del Natale: “La vita umana è una continua cristificazione. Gesù si fa uomo per
trasformarci, conformandoci a lui. In ogni uomo e donna c’è la sua impronta.
Battezzati siamo immersi nella realtà dell’amore. Lo si fa nel segno del
sacramento ma ogni uomo e donna lo fa nell’esistenza concreta dentro la propria
storia, nelle relazioni; nel mare della vita siamo immersi con Cristo., che ha
voluto condividere la nostra condizione umana. Ogni volta che andiamo a fondo
ci ripesca , ci fa riemergere in novità e ci riconsegna alla nostra umanità,
resa bella e buona come quella di un bambino. La grande tradizione orientale
parla di divinizzazione: possiamo davvero lasciarci rimettere al mondo in
Cristo, con Cristo e per Cristo, in un natale continuo”.